ra il culmine della nostra esperienza ad Aosta quella fatidica salita all’Emilius.
L’aspettavo e non la temevo, mi sentivo bene, allenato e pronto a ben figurare ma un colpo di freddo o non so cos’altro, dopo la colazione del mattino, prima di partire tramutò quei due giorni nella situazione piu tragicomica della mia vita. Una comunissima, banalissima, schifosissima diarrea.
Alle prime rampe della salita cominciai a sentire strani movimenti di pancia che non preannunciavano niente di buono ed infatti poco dopo la situazione diventò insostenibile. Potete immaginare: sotto lo sforzo della salita con quel peso sulla schiena e contemporaneamente contratto per cercare di bloccare una situazione dirompente!
Salivo alla Fantozzi, fra sudori caldi e sudori freddi. Non c’era salvezza, terreno impervio e scosceso ovunque. Finalmente il terreno spianò, passammo tra alcune case e chiesi la misericordia di un gabinetto che mi fu indicato in cima ad una ripidissima scaletta.
Oh soavissima e desiderata stanzetta i cui muri credo ancor oggi portino il ricordo del mio passaggio.
Per farla breve altre due volte si ripetè il tutto; per fortuna c’era il bosco vicino al sentiero ma per ben tre volte dovetti rincorrere il mio plotone.
L’Ufficiale Medico mi fece prendere una medicina ma quando arrivammo al campo base ero disidratato e mi girava la testa.
La notte non dormii. Mi capitò un materassino che si sgonfiò ed inoltre per la condensa o per la brina notturna c’era una goccia d’acqua che ad intervalli regolari mi cadeva addosso.
Ricorderò sempre però l’impressione che mi fece il cielo quando di notte uscii un attimo: nerissimo e luminosissimo d’infinite stelle.
Il giorno dopo quando il mio corpo si rifiutò definitivamente di salire, con una mano potevo toccare la cima.
Quì mi piace ricordare un amico e compagno di camerata, Casali di Milano, che all’inizio della discesa, saltando in quelle pietraie, si ruppe i legamenti di un ginocchio e fino al campo base si appoggiò a me saltando su una sola gamba. Avrebbe meritato più di me e più di molti altri di concludere il corso.
Per me c’era ancora tutto il ritorno da fare.
Quando arrivai in caserma, dopo aver desiderato su quel ponte sulla Dora di buttarmi giù nelle invitanti acque, andai verso il mio letto strisciando sul pavimento.
A volte nessuno sa cosa c’è dietro un’apparente sconfitta.
L’aspettavo e non la temevo, mi sentivo bene, allenato e pronto a ben figurare ma un colpo di freddo o non so cos’altro, dopo la colazione del mattino, prima di partire tramutò quei due giorni nella situazione piu tragicomica della mia vita. Una comunissima, banalissima, schifosissima diarrea.
Alle prime rampe della salita cominciai a sentire strani movimenti di pancia che non preannunciavano niente di buono ed infatti poco dopo la situazione diventò insostenibile. Potete immaginare: sotto lo sforzo della salita con quel peso sulla schiena e contemporaneamente contratto per cercare di bloccare una situazione dirompente!
Salivo alla Fantozzi, fra sudori caldi e sudori freddi. Non c’era salvezza, terreno impervio e scosceso ovunque. Finalmente il terreno spianò, passammo tra alcune case e chiesi la misericordia di un gabinetto che mi fu indicato in cima ad una ripidissima scaletta.
Oh soavissima e desiderata stanzetta i cui muri credo ancor oggi portino il ricordo del mio passaggio.
Per farla breve altre due volte si ripetè il tutto; per fortuna c’era il bosco vicino al sentiero ma per ben tre volte dovetti rincorrere il mio plotone.
L’Ufficiale Medico mi fece prendere una medicina ma quando arrivammo al campo base ero disidratato e mi girava la testa.
La notte non dormii. Mi capitò un materassino che si sgonfiò ed inoltre per la condensa o per la brina notturna c’era una goccia d’acqua che ad intervalli regolari mi cadeva addosso.
Ricorderò sempre però l’impressione che mi fece il cielo quando di notte uscii un attimo: nerissimo e luminosissimo d’infinite stelle.
Il giorno dopo quando il mio corpo si rifiutò definitivamente di salire, con una mano potevo toccare la cima.
Quì mi piace ricordare un amico e compagno di camerata, Casali di Milano, che all’inizio della discesa, saltando in quelle pietraie, si ruppe i legamenti di un ginocchio e fino al campo base si appoggiò a me saltando su una sola gamba. Avrebbe meritato più di me e più di molti altri di concludere il corso.
Per me c’era ancora tutto il ritorno da fare.
Quando arrivai in caserma, dopo aver desiderato su quel ponte sulla Dora di buttarmi giù nelle invitanti acque, andai verso il mio letto strisciando sul pavimento.
A volte nessuno sa cosa c’è dietro un’apparente sconfitta.